Lei, artista brasiliana che lavora a Ginevra, ha fatto della sua relazione con il pubblico un arte. Fabiana de Barros è un’esponente dell’arte relazionale e contestuale: senza un pubblico il suo lavoro non esiste. Lui, filmaker e fotografo svizzero, si è formato nel cinema sperimentale. Michel Favre è un regista affascinato dalla ricerca del reale nell’invisibile.
Insieme questi due artisti, molto amati dalla critica, sono venuti ad Assab One con l’intento di recuperare il passato di un’azienda grafica dismessa e la storia di un suo operaio, creando un’opera d’arte insieme al pubblico. Lo spazio espositivo sarà ripreso da una camera a raggi infrarossi e le immagini verranno proiettate sul muro, per creare un’installazione interattiva.
Rio de Janeiro, 15 ottobre 2008
Deborah Berlinck: Come è nato questo progetto? Una fabbrica dismessa, un ex operaio in azione e una camera a raggi infrarossi che riprende tutto e tutti. Come si connettono questi vari elementi nella mostra?
Michel Favre: Questo lavoro segue un percorso che abbiamo iniziato a sviluppare nel 2006 a Buenos Aires con la mostra Estudio Abierto. Avevamo costruito un’opera usando fili elettrici in un circuito chiuso, filmati da una camera a raggi infrarossi. Due anni dopo nell’ambito di una mostra collettiva al SESC Pinheiros di Sao Paulo producevamo Move, un video realizzato di nuovo con una telecamera termica.
Fabiana de Barros: Il progetto per Assab One ritorna sulla stessa idea e la sviluppa. Lo spazio espositivo era in passato la sede di una nota tipografia milanese, le Grafiche Editoriali Ambrosiane, di cui l’unica cosa rimasta è un’enorme macchina da stampa obsoleta, una Roland Ultra [da qui il titolo della mostra Ultra Non Stop, ndt] che sembra un carro armato. Abbiamo avuto l’idea di rintracciare il passato di questa macchina e di fare una nuova lettura del luogo, della sua architettura e della sua storia. Abbiamo trovato un ex operaio e gli abbiamo chiesto di mostrarci come lavorava con quel mostro (la macchina). Un video mostrerà i suoi gesti. Lo spazio espositivo verrà ripreso da una camera a raggi infrarossi e le immagini verranno proiettate sui muri. Gli spettatori interagiranno con l’installazione grazie alla proiezioni dei loro corpi incandescenti che si muoveranno nello spazio.
M. F.: Il nostro lavoro dialoga con la storia degli operai che lavoravano nella fabbrica. La storia delle tipografie è importante per il ruolo che queste hanno avuto nel movimento operaio in tutto il mondo. Indaghiamo questo tema nel paese monoculturale che ci appare oggi l’Italia.
D. B.: Perché siete tanto affascinati dall’uso della telecamera a raggi infrarossi?
M. F.: Sono affascinato dalla ricerca degli esseri umani per trovare una rappresentazione del reale che va oltre ciò che possiamo vedere. La telecamera a raggi infrarossi consente di rappresentare alcuni aspetti della realtà (nostra personale e del mondo che ci circonda) che sarebbe altrimenti completamente invisibile. Una comune telecamera cattura i colori, la luce e il movimento. La telecamera a raggi infrarossi no: cattura il calore. In più porta con sé anche un contenuto politico, in quanto viene usata ai confini tra le nazioni per registrare il calore dei corpi degli immigranti illegali. Viene anche usata negli aeroporti per assicurarsi che nessuno entri in un paese portando con sé malattie contagiose come l’aviaria. Anche le telecamere usate nel cinema furono sviluppate come strumenti militari. La telecamera di Jules-Etienne Marey’s [il fisiologo francese pioniere della fotografia e anticipatore del cinema, l’inventore della cromofotografia alla fine dell’Ottocento, ndt] era un fucile che conteneva da 12 a 16 immagini. È così che è iniziato il cinema. Il gesto di filmare non è tanto diverso dall’atto di sparare; questo si riflette persino nel vocabolario tecnico. Mi piace ricordare come i membri del movimento Tropicalia [ il movimento culturale attivo in Brasile sul finire degli anni Sessanta, ndt] usavano dire che “il cinema è una pistola calda”. L’anno scorso ho condotto un progetto all’ospedale di Ginevra con delle telecamere che filmavano i flussi cerebrali. Il mio lavoro si confronta sempre con la riceca dell’invisibile.
D. B.: Quindi il vostro lavoro è, in un certo senso, un modo per monitorare il pubblico.
M. F.: È una trappola. Nei miei film ci tengo ad avere questa posizione, che non è quella del cacciatore: è il reale che viene da me, non io che lo vado a cercare. Però ho bisogno di capire come a sua volta il reale cattura me. Per questo tengo gli occhi aperti , monitorando il reale in modo attivo, a volte usando a questo scopo telecamere speciali. Oggi esistono numerosi strumenti di mediazione che consentono di vedere cose inaccessibili a occhio nudo. Questi strumenti vengono usati dalla scienza, dalla medicina, e dalla polizia. Ciò che mi interessa è prendere questa ricerca dell’invisibile e trasporla nel territorio dell’arte, traducendo l’invisibile nel nostro mondo visibile. E questo apre un sentiero fertile per nuove interpretazioni del reale.
F. d. B.: Tutti i miei lavori comprendono il monitoraggio del pubblico, perché è proprio il pubblico che produce il lavoro. Con la telecamera a raggi infrarossi, gli spettatori all’inizio non sanno che stanno producendo l’opera, ma se ne rendono conto quando vedono i loro movimenti proiettati su uno schermo sul muro. Per me un’opera d’arte è la proiezione di se stessi in un dipinto o in un’installazione. Ciascuno proietta se stesso. La mia personale utopia è che un giorno arriveremo a un’opera d’arte immateriale, un’opera che consiste esclusivamente di una proiezione. Tra duecento anni non ci saranno più dipinti; l’opera d’arte verrà trasmessa direttamente alla mente. Uno dei miei lavori, il Fiteiro cultural (Chiosco Culturale), consiste appunto in un meccanismo prioiettivo. Ho creato un chiosco modulabile che ho installato finora in venticinque città del mondo a partire dal 1998, tra cui Sao Paulo, Milano, New York, Havana ed Erevan, in Armenia. In ogni posto in cui è stato installato, il pubblico è intervenuto e ha creato arte. Da solo il chiosco non è altro che un piccolo stand. Semplice e insignificante. L’arte si manifesta dal momento in cui i partecipanti proiettano se stessi nel Fiteiro Cultural , facendo ciò che desiderano. Anche quest’opera ad Assab One, a Milano, è un lavoro proiettivo.
M. F.: L’obiettivo non è che il pubblico diventi il soggetto. Il soggetto è la relazione dei visitatori con la telecamera che cattura ognuno di loro in una realtà di cui prima non aveva coscienza. Ogni membro del pubblico diventa un’attore nell’ambito della rappresentazione.