Nel 2045 non ci saranno più artisti. Saremo tutti artisti. Le fabbriche saranno chiuse, o lontane, o mandate avanti da robot più bravi e nitidi di noi. Gli uffici saranno aboliti per decreto perché luoghi poco ospitali e non inclini all’espressione dei talenti. Le associazioni di filantropia saranno estinte perché saranno finite le buone cause. Avremo inventato il vaccino contro le guerre, vivremo in un piccolo paradiso e appunto saremo tutti artisti. Andremo tanto a cena dagli amici a Pantelleria, a Utrecht o a Varsavia. Attenzione, “andare a cena” non vorrà dire mangiare buone pietanze ma cibarsi di simboli e bellezza. I doni scambiati non saranno mai più materiali, o almeno non in prima battuta. Oggi, in Salento, abbiamo fatto una piccola prova generale.
Sperduti in una coltre di alberi d’argento. Dentro un casino di caccia che sembra esistere lì da prima di tutto il resto, con i suoi racconti di selvaggina e di perdizione (l’amante del Duca era una donna del popolo, certo, ma istruita nell’arte di conversare con gli occhi, e poi caccia+perdizione=arte), e di contadini eccentrici amici solo dei cani, una cerniera perfetta fra il suolo rossiccio, le mangiatoie per i cavalli e il lavello di pietra, il piano per ristorarsi, e sul tetto la postazione astronomica per toccare il cielo con le dita, e parlarci se ne hai voglia. Questo Casino di caccia, accidenti, è talmente perfetto da fare gelosia e rendere ridicole anche le vite più riuscite. È più di un castello, è propriamente una residenza che consente di ritrovare il proprio baricentro annebbiato e ritracciare la rotta.
Bene, qui – vogliamo chiamarlo ombelico provvisorio del mondo? – questa sera è venuto a cena da noi Pino Guidolotti. I fotografi hanno quell’espressione da marinai che sembrano sempre capitati lì per caso, anche quando stanno per scattare l’immagine di una vita. Pino ha attraversato i marosi non fidandosi di quello che vedeva, nemmeno dentro se stesso, che è un modo molto giusto per non far addormentare la vista interiore. Detto per inciso, avremmo potuto anche solo guardare lui e scrutargli l’iride ascoltando i suoi racconti omerici su personaggi mondani senza tempo (D’Annunzio e la contessina in fiamme, Sottsass e la faccia da portoghese triste…). Ma Pino è una persona generosa e ci ha portato i suoi manufatti, gli esercizi “da ergastolano”, come li chiama lui, perché nessuno glieli ha commissionati. Ogni cosa cade con dolcezza nell’alveo del luogo, come una biglia. Ogni cosa bisbiglia cose al nostro orecchio. Chuchotage. Dopo un po’ ti lasci cullare dalla luna, dalle fronde, dal suolo gommoso, dalla pietra che leviga l’occhio, dalla curiosità sui volti, dai musici sul tetto, dalle fiamme. Forse cominci a distinguere le parole. Io ho capito così.
Le sentinelle bianche. Stanno sui pali. Sono lì per annunciare il tuo arrivo agli ospiti che sono già dentro. Ti guardano in silenzio. Si muovono impercettibilmente. Infondono sicurezza. Sono un coro che suggerisce la disposizione d’animo con cui fare il tuo ingresso.
Il fiume sacro. Una struttura di legno separa l’ambiente in due, ricorda l’iconostasi delle chiese ortodosse. C’è una foto in bianco e nero del Gange. Pino è molto legato all’India, dove ritorna ogni anno per almeno un mese e fotografa antichi monumenti. Vuoi salire? Bagna l’occhio nel fiume tranquillo. I fiumi sono il collirio dell’anima.
Il planetario vegetale. Sulle scale, le foglie di palma seccate e dipinte di bianco creano un congegno meccanico che rimanda a sistemi di astri sconosciuti eppure familiari. Stai salendo, fai attenzione a dove metti i piedi: sugli scalini e nel cosmo. Calder, Munari e Tinguely, a noi ci fanno un baffo.
La cavalletta anatomica. Poteva esserci l’uomo-misura del mondo di Leonardo o di Le Corbusier. Invece c’è il disegno al tratto di una cavalletta (in scala 30:1?). Nel 2013 da queste parti le locuste hanno addentato i campi e Pino l’ha segnato negli annali. La tavola è un memento: gli omini sono cavallette. State attenti. Una sembra innocua, tante insieme distruggono il raccolto. E non puoi dire dove finisce l’individuo e dove inizia lo stormo assassino.
La mongolfiera petrosa. La cupola di una casa si avvita, si empie di ossigeno, diventa enorme e rossa. È disegnata nel momento in cui la casa sta per staccarsi da terra e prendere il volo. Questa è una casa felice. Sarebbe piaciuta a Chagall e al Barone di Münchausen ma forse anche a Jules Verne. Le case sono bianche, ma se io le vedo rosse vuol dire che ho un’immaginazione potente e una sensibilità per ciò che avviene sottotraccia (come gli Uomini rossi di Aligi Sassu del 1931). L’immaginazione mette in moto la vita. Anche le altre carte sono bellissime, verticali, pagine di un diario di bordo che non ha inizio e non ha fine.
L’Italia giurassica. Nell’ultima stanza c’è una tavola di legno con chiodi molto assertivi piantati a fondo, e sopra un puzzle di pietre bianche calcaree che compongono un’Italia da sussidiario. La polis. L’Italia delle cento città. La frammentazione, il conflitto, le mani addosso. Ma anche la pazienza, quel talento carsico di sparire dalla storia per poi riemergere tempo dopo come un ruscelletto carsico. È un richiamo politico, e ci piace che qualcuno parli d’Italia in una fase di disincanto terminale. Alighiero Boetti ha fatto sapere di non poter essere con noi, ma ci fa tanti auguri.
I discepoli africani. Nel giardino ci sono tredici tondini di ferro che si avvitano nella terra, incoronati da altrettante teste di filo di ferro arrugginito. Se ti avvicini, vedi che quella che da lontano sembrava una matassa neuronale ha all’interno dei tratti geometrici marcati, soprattutto il naso. Certamente: la nostra specie è un mix di linee dure e di confusione morbida. I discepoli del nulla non hanno molto da insegnare, sono testimoni muti e incendiati. Il loro diventare neri e fuligginosi, grazie alla canapa e all’olio lampante, segna più un desiderio di risalire la corrente, di ritornare alle origini primordiali dell’uomo. Il Casino di caccia di Sarmenta diventa avamposto del Burning Men, il festival controculturale più famoso al mondo che si tiene ogni anno nel deserto nel Nevada. Le fiamme purificano le incrostazioni e il buon senso. Chissà, magari ne viene fuori qualcosa di buono. E viaggeremo più leggeri.
P.S. Ciao Pino, ho giocato pulito. Tu hai fatto un one-day-show usando filo di ferro, tondino, chiodi, carta, grafite, pigmenti, bambù e legno. Io ho scritto di getto queste righe su un vecchio mac book bianco, qualche ora prima dell’evento.