ENDJE, o intrecciare e vagare…
Endje è una parola albanese che racchiude due significati: “intrecciare” – il processo di intrecciare fili per creare un tessuto o dei motivi decorativi – e “vagare” – l’atto di vagare fisicamente o mentalmente, senza una destinazione fissa. Questi concetti sono metaforicamente intrecciati: si può letteralmente “tessere un viaggio” o “vagare con i pensieri” mentre si tesse. Entrambe le azioni ispirano la creatività. Il sostantivo “endje” cattura così una combinazione unica di vagabondaggio e tessitura, o di intreccio-vagabondaggio, un concetto che ritengo essere idiomatico del processo artistico di Anila Rubiku. Nel corso degli anni, Anila ha creato un corpus di opere vasto e versatile, che si evolve intorno ai temi del suo percorso di vita e di lavoro che vaga liberamente tra diverse pratiche senza essere definito da esse. Tuttavia, il ricamo e il filo rimangono una costante a cui spesso ritorna.
Il vagare
Rubiku ha iniziato la sua formazione artistica con lo studio della pittura a olio tradizionale alla scuola d’arte in Albania. Essendo una giovane artista e una donna in un’epoca in cui il paese non favoriva nessuna delle due, si sentiva piuttosto limitata in termini di accesso all’istruzione e alle opportunità di crescita. L’Albania era appena uscita da un lungo e rigido isolamento e stava vivendo un periodo di caos. La scena artistica durante il comunismo non offriva modelli femminili, mentre l’istruzione artistica che stava ricevendo forniva poco o nulla in termini di conoscenza dell’arte contemporanea. Determinata ad ampliare i suoi orizzonti e vedere il mondo, Anila decise di lasciare l’Albania. Tuttavia questo gesto non è da intendere come un atto disperato alla ricerca di una vita migliore, ma piuttosto come un atto di rifiuto della situazione stantia che si trovava ad affrontare. Nonostante i molti ostacoli e restrizioni, riuscì a farsi accettare all’Accademia di Belle Arti di Brera e ottenne il diritto di recarsi in Italia. Poi, nell’ottobre 1994, arrivò a Milano, una grande città straniera in un momento di cambiamento nell’accoglienza degli albanesi, il che rendeva difficile sentirsi a casa o addirittura trovare una casa. Questo desiderio o la ricerca di una “casa” come luogo di appartenenza sarebbe diventato un tema chiave nel suo repertorio artistico. Nonostante queste lotte per la sopravvivenza, si immerse nella ricerca, nella lettura e negli incontri con l’arte, sia antica sia contemporanea. Ma soprattutto colse l’opportunità di viaggiare in paesi, musei e mostre, per realizzare il sogno con cui aveva iniziato il suo viaggio dall’Albania. Gli incontri con i maestri classici e moderni spinsero Anila a ripensare il suo approccio alla creazione artistica, spostandosi in un primo momento verso le opere su carta. Parallelamente la ricerca sulla storia dei movimenti femministi la aiutò a riformulare le molte questioni sull’ineguaglianza di genere e sulla posizione delle donne nella società, temi che sarebbero diventati un altro pilastro della sua pratica. Suggerirei che fu a questo punto che il suo “endje” come vagabondaggio iniziò davvero. Questi primi anni di viaggi fisici e mentali sembrano essere importanti non tanto per decidere come avrebbe dovuto apparire la sua arte, quanto piuttosto per formulare le domande e le questioni che avrebbero plasmato la sua identità artistica.
Il filo
Questi temi appena trattati, combinati con la necessità di ripensare la sua pratica, si sono amalgamati nel 2004 nella mostra collettiva Colors of Albania presso la Galleria Nazionale di Tirana, alla quale Anila fu invitata a partecipare. Questa fu la prima opportunità per lei di tornare in Albania come visitatrice, ma anche come artista. In un atto spontaneo, ma profondamente riflessivo, invece di presentare un’opera esistente, decise di rivisitare un’antica tradizione familiare, quella del ricamo al telaio. Invitò sua madre, ex sarta di professione, a unirsi a lei in una performance nello spazio espositivo dove si sedettero e ricamarono su un telaio tradizionale che era stato della famiglia per tre generazioni. Con questo salto radicale nella scelta del filo come suo mezzo artistico, “endje” come tessitura nel suo senso letterale, fa il suo primo ingresso nella pratica di Anila. I ricami mostrano una coppia: una donna e un uomo, a volte nudi a volte vestiti, collegati dai contorni di una casa volante. Brevi frammenti di testo tra di loro presentano domande senza risposta che i personaggi sembrano porre sia l’un l’altro sia a noi, gli spettatori. Il lavoro riguarda un atto di equilibrio e negoziazione delle relazioni che costituiscono la vita quotidiana. Fino a questo momento Anila aveva sentito un forte bisogno di avere il pieno controllo del processo creativo, ma l’ingresso del filo e la collaborazione con sua madre le aprirono nuove possibilità. È qui che “endje” chiude il cerchio, con il filo che dà corpo ai vagabondaggi di Anila attraverso luoghi, tempi, pensieri e temi. Come lei stessa racconta: “Ho deciso di usare il filo per collegare l’Anila Rubiku albanese del passato e la storia della mia famiglia, con me stessa nel presente e con le possibilità riguardanti il futuro. Mi piace anche la meditazione e il tempo che ci vuole per completare la tessitura, e il fatto che si può fare insieme e imparare dagli altri allo stesso tempo“.
Ain’t I a woman?
Un gruppo di fazzoletti bianchi di seta sospesi nell’aria. Somigliano a uno stormo di uccelli e a una nuvola sognante. Il pavimento è coperto di fagioli, rendendo il movimento difficile e costringendo i visitatori a negoziare il loro equilibrio e il loro percorso a ogni passo. Il titolo dell’opera è preso da uno dei discorsi più famosi dell’attivista per l’abolizione della schiavitù e per i diritti delle donne, Sojourner Truth (1797–1883), pronunciato nel 1851 alla Convenzione delle Donne a Akron in Ohio. A un esame più attento, si può notare che i fazzoletti sono ricamati con fili di colori e sfumature diverse. Miriam Makeba, Musine Kokalari, Shirin Ebadi, Tony Morrison… i ricami sono nomi – i nomi di 100 donne pioniere che hanno lottato per i diritti delle donne, la giustizia sociale, le invenzioni scientifiche, i movimenti culturali e altro ancora. I fazzoletti sono stati ricamati nel 2004 da un gruppo di donne rom – un gruppo molto vulnerabile che soffre di povertà, razzismo e discriminazione – a Durazzo, la città natale dell’artista in Albania. Al centro del progetto c’è il desiderio di riconoscimento, ma anche la volontà di potenziare questa conoscenza attraverso lo scambio e la condivisione. Le donne rom sono state impiegate dall’artista per ricamare i nomi delle pioniere, condividendo con loro la storia di ciascuna pioniera, in modo che potessero conoscere le difficoltà delle donne i cui nomi stavano ricamando. Rivedendo il progetto, Anila ha sentito una mancanza: oltre a far parte della narrazione, le donne rom che avevano collaborato con lei erano ancora assenti dall’immagine. Ha deciso così di dedicarsi a ricamare i nomi di tutte le 51 partecipanti su nuovi fazzoletti, aggiungendoli alla nuvola onirica. Elevando e collocando i loro nomi accanto a quelli delle pioniere, l’artista compie un atto di restituzione e riconoscimento delle sue collaboratrici e della storia non raccontata delle donne e dei loro contributi spesso trascurati nella storia. Il progetto continua a evolversi e cresce con ogni nuova iterazione. I fazzoletti hanno finito per formare una sorta di coro silenzioso che inneggia alle aspirazioni, ai fallimenti, ai desideri e ai sogni. I fili delle vite si intrecciano con i fili del ricamo, mentre i fagioli sul pavimento disturbano i piedi dei visitatori, riflettendo metaforicamente i percorsi complicati che le donne “della nuvola” hanno dovuto percorrere nelle loro vite.
The Inner Door
Un’intimità poetica si diffonde attraverso motivi astratti di quasi cento tele di varie dimensioni, pazientemente ricamate con fili di seta. Alcune di esse mi ricordano i dipinti di Paul Klee. L’ispirazione per il progetto proviene da oggetti reali – le porte interne degli edifici residenziali milanesi, progettate da architetti famosi nel corso del XVIII, XIX e XX secolo. Dopo le difficoltà dei primi anni, Milano è diventata la seconda casa di Anila. Ha imparato a conoscere la città in tutti i suoi angoli nascosti e, durante i suoi vagabondaggi, ha scoperto le porte interne. Affascinata da esse, ha iniziato a documentarle con una fotocamera, senza sapere inizialmente cosa avrebbe fatto con quelle immagini. La parola “porta” nel titolo allude senza dubbio all’idea di una casa, una forma spesso presente nel lavoro di Anila, sia come oggetto scultoreo, sia in disegni e ricami, spesso con il suo interno rappresentato all’esterno. Questo collasso tra interno ed esterno, domestico e mondano, presenza e assenza, si basa su una duplice considerazione della casa: come edificio e architettura e come “abitazione” – un rifugio sicuro e una zona di comfort, il luogo in cui ci si sente di appartenere. La porta interna si basa sulla stessa tensione, ma segue un percorso diverso: la rappresentazione figurativa ha ceduto il passo alla forma astratta e alla poesia del colore, della luce e della texture. Come i dipinti di Paul Klee non sono semplici forme astratte, ma astrazioni di forme e luci che ha incontrato durante i suoi viaggi (leggasi “vagabondaggi”), così lo sono le tele di Anila: astrazioni di forme e luci che ha incontrato durante i suoi vagabondaggi a Milano. Il titolo è un indicatore e una metafora. Quei bellissimi oggetti vengono rielaborati e ricreati in una texture e una sensibilità diverse, e i confini tra architettura ed emozione si fondono in delicati ricami di ricordi ed esperienze. Il progetto diventa una sorta di lettera d’amore alla città, scritta non con le parole ma intessuta con fili e colori. Le forme setose davanti a noi non rappresentano semplicemente le porte interne degli edifici milanesi; diventano anche le porte interne che ci conducono nell’universo filiforme di Anila.
Edi Muka