Luca Quartana

Addio

a cura di Giorgio Zanchetti e Eugenio Alberti Schatz

febbraio-marzo 2016

Luca Quartana

Addio

a cura di Giorgio Zanchetti e Eugenio Alberti Schatz

febbraio-marzo 2016

Luca Quartana, ADDIO - Installazione, ASSAB ONE, 2016. Foto Gianluca Carraro

IN COLLABORAZIONE CON
Annalisa Guidetti, Antonella Ortelli e Giovanni Ricci

Addio è lasciar andare.
Addio è lasciarsi andare.
Addio è una scia che svanendo svela.

In mostra sono raccolte sequenze di immagini fotografiche di grande formato e scritti poetici collegati al lavoro portato avanti dal 2000. Il corpo dell’artista e la parola (scritta o pronunciata nelle azioni dal vivo) sono i due registri portanti della mostra. Quartana si inoltra nella dicotomia fra scrittura e immagine e tenta una sintesi originale. Per farlo, come in passato, lavora sull’identità fra parola e persona.

Addio è un modo per “portare” il pubblico dentro il proprio sito, esplicitandone metodo, ragioni ed estetica. Le fotografie in mostra sono il risultato di un’azione con Antonella Ortelli, documentata da Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, e di un lavoro realizzato da Luca Quartana in collaborazione con Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci.

Una parafrasi, di Giorgio Zanchetti

A dieci anni dalla sua ultima mostra personale, Luca Quartana ritorna, finalmente, con una mostra d’addio… Perché colmare il tempo per poi tornare a lasciarsi?

Innanzitutto vorrei sgombrare il campo da un possibile equivoco: Luca è qui davanti a me e sta bene.  La sua rappresentazione sofferta, anche drammatica, in due fotografie recenti di Johnny Ricci e Annalisa Guidetti, che lo rappresentano durante un lavoro fatto su di lui da Antonella Ortelli, è appunto una mera presentazione di sé, non di un’eventuale condizione estranea al proprio sé e alla proprio identità fisica e mentale. Presenta insomma, per esser chiari, una situazione dello spirito e non una condizione contingente del corpo. Siamo seduti insieme nel nuovo studio che si è costruito nella sua nuova casa, per continuare a lavorare. Perché Quartana, in questi anni – come ha sempre fatto dal principio degli anni Ottanta – ha continuato a lavorare molto: soprattutto sulla scrittura visuale del suo sito lucaquartana.it e sulla relazione e la reciprocità fra le persone, attraverso l’arte, nell’ambito del Progetto Casina di Antonella Ortelli, nella sezione femminile del carcere di San Vittore.

Per realizzare questa prima immagine Quartana ha offerto il proprio corpo come supporto del disegno dell’Ortelli, in un proseguimento, arduo dal punto di vista psicologico, ma sorprendentemente naturale, del lavoro di interrelazione e di scambio sviluppato insieme alle donne del Progetto Casina. Attraverso la semplice apposizione di queste linee a matita grassa Luca diventa, senz’altro, manzonianamente, un disegno “vivente” della Ortelli, certificato e preservato, fino alla doccia successiva, dall’obbiettivo implacabile di Ricci e Guidetti; ma in realtà, il significato centrale dell’opera è un altro: sottomettendosi a questo atto grafico minimale, il corpo maschile di Luca – molto mutato nel tempo, perché molto ha vissuto ed è stato vissuto – viene ridefinito dalla sensibilità di Antonella come una superficie e come una forma plastica con la quale costruire una relazione tattile e gestuale. Il ruolo di ciascuno è chiaro; nessun ruolo è convenzionale. La consuetudine di due percorsi paralleli, quello artistico e quello dell’amicizia – che hanno entrambi origine negli anni della formazione, alla Casa degli artisti e alla scuola di Luciano Fabro a Brera – rende possibile un incontro alla pari, un’inedita confidenza e un reciproco riconoscimento tra colei che disegna e colui che è disegnato. Il segno non si impone come una geometria o una scrittura autonoma sul corpo, ma cerca dentro questa figura e la trasfigura, facendo affiorare quasi in trasparenza, attraverso i pori della pelle, la linea e la scrittura interna della persona, sentita empaticamente nella sua percezione d’inadeguatezza al reale. Ogni segno tracciato, ogni parola pronunciata, sono in fondo il tentativo di leggere noi stessi negli altri.

Questo Addio è, paradossalmente, per Luca un modo per interpellarci. Per chiamarci qui intorno a sé, a vedere insieme alcune delle cose che lui ha visto in questi dieci anni. Accanto alla fotografia, grandi teli riproducono in dimensioni ambientali un’antologia delle pagine verbovisuali del suo sito web. Ma la trasposizione in mostra non è una semplice questione di scala – cioè di proiezione geometrica su un supporto più ampio del lavoro elettronico che non ha, in sé e per sé, dimensioni, ma soltanto una proporzione interna –, è una questione di respiro (sss…) e di luce.

Certo l’incontro con gli edifici di Assab One – quando è stato invitato da Eugenio Alberti Schatz a pensare un proprio intervento per una possibile collettiva, che è rimasta, per ora, in progetto – è stato determinante, perché è attraversandoli che è nato il ritmo di questi nuovi teleri a stampa digitale, sospesi come quinte in un retropalco. Ma Quartana non era alla ricerca di una scena sulla quale collocare il suo lavoro o, almeno, questa scena non poteva coincidere, paradossalmente, con le linee concrete di un’architettura.  Dopo il calco scultoreo dello spazio espositivo (Ut Pictura Poesis, Milano, Galleria Belvedere, 1989), la vitale reclusione di Treazione (Milano, Galleria Bordone, 1993) e l’habitat (nel senso proprio indicato da Luciano Fabro) di Chi alla Biennale di Venezia del 1993, lo scultore aveva già chiuso i conti con il problema palladiano di ordine e proporzione che aveva animato alcuni precedenti interventi in collettive come Filologiae (con la Casa degli artisti, Milano, Santa Maria delle Grazie, 1983), Geometrie Dionisiache (Milano, Rotonda della Besana, 1988) e anche, attraverso la mediazione dell’intervento nel tessuto urbano e della scenografia, nelle sue installazioni per Politica(Novi Ligure, 1988), della quale Quartana era stato insieme a Mario Pardi il promotore, e nelle collaborazioni con lo stesso Pardi e il collettivo Bandamagnætica della fine degli anni Ottanta. Già con Insignificazione (Ancona, Campo degli Ebrei, nell’ambito del festival di Polverigi, 1995) il suo intervento non ha più la necessità di concretarsi in una forma o in una struttura; l’azione di Quartana entra in relazione con l’ambiente antropico che lo accoglie, limitandosi a liberarlo dal roveto che l’aveva invaso, in segno di riconoscimento della sua funzione simbolica per la memoria collettiva della comunità cittadina.

Anche all’Assab One accade qualcosa di simile: la qualità dello spazio, è proprio quella di non aver voluto negare con un restyling la traccia antropologica di quella cultura del lavoro grafico-editoriale che ha improntato la storia recente della nostra città, negli anni Sessanta e Settanta, tanto quanto le fondamentali ricerche artistiche coeve. È insomma, nelle parole di Quartana “un luogo carico di storie, al tempo stesso rispettoso di sé e accogliente”, che non lo condiziona e che non può essere condizionato da lui. Come sulle pagine di un libro, le scritture scorrono agevolmente, spesso in bianca e volta, lungo gli stendardi sospesi tra i pilastri o alle pareti.

Dal 1996, con la partecipazione alla mostra Parasites a Bruxelles, Quartana adotta la scrittura come principale linguaggio espressivo, riconoscendone il fondamentale valore originario, poetico e filosofico, che gli permette di riannodare insieme le differenti radici delle ricerche poetico-visuali, della linea dello spazialismo di Fontana e dell’arte concettuale. Lo spazio entro il quale inserire la propria opera diviene allora il luogo della relazione tra parola e persona. Come ha detto una volta Anna Fontanetto, la sua parola raccolta in libro (Solo sesso, 2005; Scripta volant verba manent, 2005), scritta su taccuini neri, «fogli, lavagne (Visual rave, Milano, Società Umanitaria, 1997-1998) oppure fatta di luce proiettata (Dia 1 e Dia 2, Rovereto, Numero Civico, 1994) o di luci al neon (SSS, Rovereto, Galleria Aurora, 2003; Solo Sesso, Galleria Milano, 2005) è diventata l’elemento principale delle indagini sullo spazio e sulle dinamiche relazionali, l’elemento fondante della poetica». Ma già nel 1990, la personale Il pittore veglia con te alla Galleria Belvedere era stata accompagnata da un articolato lavoro in forma di libro, Le peintre et sa femme, nel quale, così come nella mostra, il rapporto con la tradizione artistica del Novecento si sviluppava in una serie di stratificazioni sul sostrato dell’esistenza individuale, in un cerchio che correva dalla propria infanzia alla vita familiare, alla nascita dei propri figli.

La grande fotografia che lo ritrae, al centro della prima sala, è accompagnata da una serie di scritture visuali in cui dall’S iniziale scaturisce una serie di parole attraverso le quali Quartana cerca e dice le coordinate del proprio SÉ, nell’immediatezza e nella permanenza. E a seguire sceglie un’altra icona – l’immagine monumentale di una scultura –, accanto alla quale la parabola dello SCEMO serve da introduzione per il passaggio alla sala successiva, tutta scritta, dove allinea le sei tavole permutazionali che simulano (con una rottura) la sequenza della relazione logica fra PERSONA, PAROLA, SPAZIO e TEMPO.

Alcuni dei punti cardine lungo i quali si snoda questo percorso sono, poi, segnati dalla presenza luminosa delle composizioni di lettere al neon, ormai lingua morta per la tecnologia, e proprio per questo ripresa con interesse e quasi con tenerezza da Quartana, per riconsegnarla alla tradizione dell’arte che l’aveva fatta propria negli anni Cinquanta e Sessanta. La claustrofobia suscitata dalla chiusura quasi carceraria di uno spazio ristretto e privo di aperture verso l’esterno è spezzata dalla presenza di sei TU, che, come altrove anche l’IO, diventano sagome stilizzate di un volto o di una maschera.

Ma la luce, si badi, non è soltanto l’elemento costitutivo di queste opere elettriche e di quelle elettroniche di Quartana. Che altro sono infatti le grandi fotografie? E anche quelle scritture composte e stampate con la tecnologia digitale conservano in sé il seme di una luce: le tonalità calde degli sfondi e le sfumature di grigi delle lettere sono ricavate, per prelievo, dai pixel dei fondali – apparentemente neutri, ma in realtà ricchissimi di colore – delle cinque immagini fotografiche scattate per lui da Ricci e Guidetti. Quei toni sono, insomma, la campionatura della luce scelta dal fotografo per illuminare l’uomo e la statua.

Il percorso della mostra è finito. Ma nel gabbiotto in vetro in cima alla scaletta a gradini sfalsati Quartana si è ricreato una tana analoga alla sua di Treazione. Da questa cabina di comando può offrirsi al pubblico anche nella dimensione congeniale della performance (Azione 1 e Azione 2), diffusa in audio e in video nello spazio espositivo, con il sonoro e la regia di due dei suoi figli, Irene e Tommaso: entro quel contenitore trasparente può compiere in pubblico un gesto che non faceva da molto, molto tempo, accompagnato da un’opera immateriale della Ortelli (M. Rosa, 1989) e dalle note di una canzone di Franco Boggero; là può leggere il lungo testo che aveva cominciato a scrivere per Mario Pardi poco prima che morisse e che ora riscrive continuamente da vent’anni.
È là che Luca ci aspetta. È là che possiamo vederlo.

E paradossalmente, nonostante tutti gli amici che ha intorno, nonostante la presenza di tutti quelli che sono venuti a incontrarlo, nonostante tutte queste luci cha abbiamo acceso, vedo che Luca è solo – “voglio vederti solo” ha scritto Antonella Ortelli nel testo che introduce il secondo sito web di Luca    lucaquartana.net – là dove nulla è illuminato.
È febbraio e sicuramente farà freddo…
E verrà buio presto.

Qualche addio e molti ritorni, di Eugenio Alberti Schatz

L’addio è un tradimento. È il coperchio del sarcofago del tempo che viene calato sul corpo dei vivi. È la morte in vita, il trailer più potente della fine che riusciamo a immaginare. Forse non a caso alle sorgenti del melodramma europeo c’è un commiato senza possibilità di appello: quello di Dido and Aeneas di Henry Purcell (Londra, 1689). La vicenda è raccontata nel quarto libro dell’Eneide, un canto perfettamente simmetrico dove il mondo dei maschi pianifica la fuga in porto, accatastando le derrate sulle navi, mentre il mondo delle donne si dispera a palazzo (il legno delle navi e il legno delle pire). Purcell termina l’opera con il lamento, un modello caro anche a Monteverdi e Cavalli, in cui un tema di basso ostinato di 3-4 note discendenti si ripete molte volte sempre uguale. Il sipario cala sul sacrificio della principessa straniera in patria, un atto funzionale alla futura fondazione di Roma. Si chiude una porta per aprirne un’altra. Non si può avere due porte aperte simultaneamente. È lo stesso principio per il quale gli Achei si sono bruciati le navi alle spalle per decidersi a espugnare Troia. Per quanto possa annichilire e recare dolore, dietro un addio c’è sovente un disegno superiore capace di rendere obsoleto il quadro di partenza.

When I am laid in earth,
May my wrongs create
No trouble in thy breast
Remember me, but ah! forget my fate.

La regina non vuole essere cancellata, al contrario vuole essere amata nel ricordo per sempre. Non è disposta a vivere alle condizioni dettate da altri e a scendere a patti con la propria anima. Perciò trasforma l’addio in morte, restando viva per sempre nel canone occidentale. (Sarebbe morta di più se dopo il tradimento di Enea fosse rimasta in vita spegnendosi lentamente.)

Gli addii non sono mancati nella letteratura e nell’arte. Henry Roth, dopo aver scritto Chiamalo sonno, fa il pompiere. Arthur Rimbaud a vent’anni smette di scrivere vera poesia. J.D. Salinger dopo quattro capolavori si isola per sempre. Truman Capote dopo In Cold Blood scivola nel declino e non finirà più nulla. E sopra tutti Duchamp  sostituisce gli scacchi all’arte, anche se in gran segreto lavorerà per vent’anni all’opera Étant donnés. Veri addii? Crisi biografiche? Modi per farsi notare di più?

Sul più bello l’artista esce di scena sbattendo la porta. I fun club rimangono orfani e interdetti, ma nulla di esterno può farlo tornare sui suoi passi. È un fenomeno ricorrente, come le crisi finanziarie del capitalismo. Si potrebbe quasi pensare a una valvola di sfogo della cattiva coscienza del sistema dell’arte, in cui tutti vorrebbero registrare sempre un progresso e un andamento col segno +. Se ci limitiamo ai fatti, è il ribadire le ragioni dell’individuo e il suo potere di veto nel consesso del mondo. Il fine non giustifica i mezzi, sembrano dirci in buona sostanza coloro che si congedano in modo plateale e ostinato.

Quando parliamo di addii, non di sole sospensioni si tratta. Ci sono anche passaggi di stato, migrazioni, salti nel vuoto. Come nel caso di Vasilij Kandinskij, che ruppe con il gruppo NKVM di Monaco poiché molti membri non accettavano la sua svolta radicale verso l’astrattismo. Lui voleva riscattare l’arte e riportarla a una maggiore purezza.

Luca Quartana ha cominciato a dire addio all’arte molto tempo fa, negli anni in cui era in cima alla piramide. Nel 1993, quando vinceva il Premio Marino Marini per la scultura alla Biennale di Venezia. Nel 1996, quando partecipava a Manifesta 1 e concepiva luoghicomuni.it, antesignano di lucaquartana.it. Nel 2005, con la mostra Scripta volant verba manent alla Galleria Milano di Carla Pellegrini, quando si limitava a effettuare puntamenti di luce sugli affreschi, proiettare un cerchio di luce a terra e scrivere con il borocatalco Just dust. Quella fu l’ultima mostra. Da allora il suo fare si è spostato nel web, in un luogo tanto denso di potenzialità quanto rarefatto sul piano sensoriale.

lucaquartana.it è una caverna platonica in cui si proiettano idee. Per quanto io possa essere riluttante nell’attribuire a questo luogo il genere della poesia visiva, non vedo come evitarlo. Aleggia tuttavia come una presenza del passato, il calco di un’eredità di tanto fare e progettare arte fisica nello spazio per e con gli altri, una nube di polvere finissima al limite del percettibile. Quartana non è un eremita, cercava un luogo in cui continuare la propria ricerca senza escludere il mondo. Un posto dove “ci voglio stare io, e voglio che ci stiano anche gli altri”. Un posto che non è uno studio, una galleria, un museo: non ha infatti limiti di orario, di statica, di budget. È un semplice foglio bianco del pensare. La prateria assoluta. Giorgio Zanchetti lo definisce “capolinea della navigazione”. Il luogo dove arriviamo per ascoltare la verità di un oracolo interiore. Ci lavora da almeno quindici anni, ogni volta progettando schermate nuove, parole nuove, equilibri grafici e incroci nuovi. Intende lavorarci fino alla fine dei suoi giorni, e quando morirà “resterà un vocabolario”.

Quartana era inquieto. Era alla ricerca di uno spazio di espressione più denso e più libero di quelli con cui si era misurato. E siccome non lo trovava, se lo è inventato. Ha aperto una porticina e ci ha scavato dentro un luogo delle origini, una piccola cattedrale piena a sua volta di porticine di significato. La mostra Addio può essere letta come una scala di corda che Quartana ci butta dalla sua arca metafisica per invitarci a bordo. Il sito ci lascia soli con la nostra solitudine, lo smarrimento, le pareti lisce senza appigli, il senso di frustrazione per non capire dove andare e perché. Sono problemi nostri. O forse, semplicemente non è il momento giusto.

È un oracolo che apre porte di continuo, come una scala di Escher. Ogni parola è una sfera di caviale che si spappola sul palato, aprendo mondi, infiorescenze, racconti. O una lanterna di carta kamikaze spedita alla riva del nemico. Ogni parola genera campi nuovi, che riprogrammano la disposizione delle parole nella pagina. Se clicchiamo niente, ci imbattiamo nel vuoto. Se clicchiamo sei, facciamo nascere una supernova al centro che scaglia le parole ai lati. Se clicchiamo persona, si forma una falange macedone di altre persone… Se clicchiamo veloce, ci facciamo un film con le parole che saltano come grilli in una camera anecoica.

Sinistra, in alto nell’angolo, un piccolo punto.
Destra, nell’angolo in basso, un altro piccolo punto.
E al centro niente di niente.
E niente di niente è tanto, tantissimo.
In ogni caso assai più di qualcosa.

La poesia si intitola Vuoto, l’ha scritta Kandiskij. Che scrive anche, ne Lo spirituale nell’arte (1910) a proposito del teatro di Maeterlink: “La parola è una risonanza interiore.” E il suo “suono puro viene in primo piano ed esercita una pressione diretta sull’anima.”

Perché l’artista ci invita nel suo antro total white? Per giocare con l’alfabeto delle cose ultime, i concetti che definiscono la nostra identità di esseri umani. Non ci sono appigli. Le regole dobbiamo capirle da soli. O ancora meglio, dobbiamo farcele noi come i primitivi si fabbricavano le punte di lancia con l’ossidiana. Non ci sono alibi, pretesti, scorciatoie. Se dentro di noi troviamo il vuoto, sentiamo pena. Se fuori di noi troviamo il vuoto, abbiamo paura. La caverna è disturbante quel tanto che basta. Ma il sito non è scevro di una sua pungente e affettuosa ironia: un piccolo confessionale nel reality della vita.

In occasione della mostra ad Assab One – tradimento del tradimento e ritorno sui propri passi – viene da essere grati a Quartana. E viene da ragionare sul ruolo dell’artista. Una delle metafore dell’artista che trovo più pregnanti, in ambito contemporaneo, è quella dello Stalker, la guida che nel film di Andrej Tarkovskij del 1979 accompagna uno scrittore e un fisico nella Zona, una misteriosa area transennata dai militari in cui le regole del senso comune sono sospese. La storia del loro piccolo trekking è la storia dell’umanità, ossia di un percorso comune e conflittuale in cui ognuno esprime la propria cifra esistenziale distintiva e durante il quale si cerca di far luce sul metodo del mondo. La diversità del luogo è affascinante, e infatti richiama diverse persone nonostante sia illegale, dando lavoro agli Stalker. L’artista è una guida che non garantisce il risultato, non si sostituisce a noi clienti (come la guida alpina, d’altronde). Si limita ad accompagnarci in territori rischiosi, dai quali sarà bello far ritorno nella civiltà mutati dentro, arricchiti, illuminati. Lo Stalker dice: “La debolezza è potenza, e la forza è niente. Quando l’uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido, così come l’albero: mentre cresce è tenero e flessibile, e quando è duro e secco, muore.”

In un’intervista sul film Andrej Tarkovskij è stato esplicito: “La Zona è la Zona. La Zona è la vita. Attraversandola, l’uomo o si spezza o resiste. Se l’uomo potrà resistere, dipende dal sentimento della propria dignità e dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal transitorio.”

Il film si chiude con la bambina che sposta il bicchiere con la forza della mente, un gesto che presto o tardi diventerà quotidiano.

Professore: – E questa stanza è lontana?
Stalker: – In linea retta duecento metri, ma qui, purtroppo, di vie dirette non ce ne sono.

P.S. Luca Quartana mi ha chiesto di dirvi questo. “Le parole non sono proprietà privata, sono di tutti. Non voglio che la gente pensi a me. Addio.”

Biografia

Luca Quartana è nato nel 1958 a Milano, città in cui vive e lavora. Dalla fine degli anni Ottanta ha indagato il problema della concezione dello spazio e della sua condivisione nelle forme della relazione interpersonale. Nella sua ricerca si intrecciano diversi piani di lavoro, dalle installazioni (Ut pictura poesis,1989; Chi, Premio Marino Marini alla XLV Biennale di Venezia 1993) alla performance (Treazione, 1993), dalla pratica di una scrittura visuale sistematicamente dilatata grazie alla proiezione  ambientale (Parolapersona, 1993; Dia 1 e Dia 2, 1994), dai libri (Le peintre et sa femme, 1989; Solo sesso, 2005 e Scripta volant verba manent, 2005) al laboratorio collettivo (Insignificazione, 1995) e a internet (www.lucaquartana.it, 2000).

  • Luca Quartana, ADDIO, ASSAB ONE, 2016. Foto Gianluca Carraro
    Luca Quartana, ADDIO, ASSAB ONE, 2016. Foto Gianluca Carraro
  • Luca Quartana, ADDIO - Installazione, ASSAB ONE, 2016. Foto Gianluca Carraro
  • Luca Quartana, ADDIO - Installazione, ASSAB ONE, 2016. Foto Gianluca Carraro
    Luca Quartana, ADDIO - Installazione, ASSAB ONE, 2016. Foto Gianluca Carraro